L’AFRICA IN PIEDI IN AIUTO ALL’OCCIDENTE – Convegno Ancona, 18 – 20 Marzo 2005

AFRICA-EUROPA: TRA STORIA E FUTURO

Incontro-dibattito fra Albert Tevoedjiré e Bernardo Bernardi

Moderatore J.L. Touadi

Due uomini, uno africano e uno italiano. Il primo, Albert Tevoedjiré, ha una luunga storia di militanza e di impegno sia in Africa che sull’Africa. Scrittore, economista e politico. E’ stato ministro nel governa del suo paese, candidato, dopo il periodo dell’Assemblea nazionale, a Presidente della repubblica. Prima era stao all’Organizzazione mondiale del lavoro a Ginevra. Ha terminato da poco il compito di rappresentante del Segretario generlae delle Nazioni Unite in Costa d’Avorio. Ha scritto un libro che ha fatto storia. “La povertà, richhezza dei popoli” edito dall’Emi.

Bernardo Bernardi può essere ricomnosciuto come il padre deglli studi di africanistica in Italia. Antropologo, professore emerito di Etnologia presso l’Università di Roma “La Sapienza”. È stato membro del Comitato esecutivo dell’International African Institute. Presidente del Consiglio europeo di Studi africani e membro del Consiglio scientifico dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, è Honorary Fellow del Royal Anthropological Institute di Londra. Tra le sue pubblicazioni: Etnologia e antropologia culturale (Milano 1973); Uomo cultura società. Introduzione agli studi etnoantropologici (Milano 1982); Introduzione allo studio della religione (Torino 1992); Africa. Tradizione e modernità (Roma 1998); Nel nome d’Africa (Milano 2001)

Touadi: La prima interlocutrice dell’Africa  è l’Europa a causa della sua vicinanza geografica, storica, culturale. A partire dalla sua esperienza e dai suoi studi che cosa ci può dire in merito a questi rapporti così contrastati, difficili, ma anche così promettenti, fra Europa e Africa?

Bernardo Bernardi: Sull’Africa esistono molti pregiudizi. I miei colleghi di studi classici, di storia e di altre materie legate alla cultura greco-romana hanno una sorta di disprezzo per l’Africa, meglio una sorta di disinteresse che diventa disprezzo. Io considero una missione il mio impegno per combattere quest’atteggiamento nei riguardi dell’Africa, nei riguardi di quella che è la realtà culturale dell’Africa. Proprio in questi giorni mi verranno consegnate le bozze di un lavoro appena terminato che ho intitolato L’Africa mistica. Le culture orali dell’Africa, nel quale cerco di mostrare tutta la ricchezza delle culture orali del continente africano. Sottolineo orali, perché l’Africa possiede anche ricche culture letterarie, relative soprattutto all’Egitto, ma anche all’Etiopia. L’Etiopia possiede una straordinaria cultura letteraria, mentre fra le popolazioni bantù dell’Africa esiste una molteplicità di culture, una grande varietà di forme e sistemi sociali e politici che sono purtroppo poco conosciuti al di fuori dell’Africa. Ritengo che sia soprattutto quest’ignoranza della realtà africana a suscitare e alimentare i pregiudizi sull’Africa e che l’unico mezzo per superarli sia l’effettiva conoscenza di questa ricca realtà. Al riguardo ho avuto anche delle soddisfazioni. Nella vostra libreria ho visto esposto il volume Africa. Tradizione e modernità. Un amico chirurgo mi ha detto di averne regalato quattro copie ad altrettanti suoi amici come dono di Natale. La notizia mi ha fatto molto piacere, perché ritengo che sia l’unico metodo per eliminare pian piano i tanti pregiudizi che circolano sull’Africa.

È importante evidenziare la ricchezza delle culture orali africane. In Africa l’oralità ha il primato sulla scrittura. In materia noi ci portiamo ancora dietro i pregiudizi che ci sono derivati dalla teoria evoluzionistica. Consideriamo primitivi i popoli privi di scrittura e quindi molte popolazioni africane che fino all’epoca moderne hanno mancato della scrittura e alcune ne mancano tuttora. Questo significa che esiste un pregiudizio sulla realtà della cultura umana. La cultura umana, compresa la cultura di cui siamo portatori anche in questo momento, è anzitutto e soprattutto una cultura orale. Noi comunichiamo attraverso l’oralità e l’oralità ha il primato in campo culturale. L’uomo da quando è homo sapiens sapiens si è espresso attraverso la cultura orale. Ricordo sempre, perché è molto eloquente e istruttiva in merito a questo pregiudizio, la scritta che si trova in una cartina dell’Africa meridionale risalente al 1700: «Nazione selvaggia [due termini tipici della fine del ‘700, quando dominava il mito del buon selvaggio, ecc.] che si dice non abbia nemmeno l’uso della parola». Ecco l’espressione di un pregiudizio totale, radicale.

Devo confessare che io stesso da studente ho cominciato con lo studiare «i primitivi». Ho sulla coscienza anche il fatto di aver scritto i miei primi saggi sulla «religione dei primitivi». Ma già Pritchard notava che coloro che parlano dei primitivi non sono mai stati in mezzo ai primitivi. Per me è bastato recarmi una volta fra coloro che erano considerati primitivi per scoprire che non lo erano affatto. L’esistenza dei primitivi non è una realtà storica, bensì il frutto di un pregiudizio che prevale ancora nella nostra mentalità occidentale. Un pregiudizio che deve essere superato mediante la conoscenza.

Touadi : Un pregiudizio che deve essere superato mediante la conoscenza. Un grande studioso della realtà africana, Basil Davidson, nel suo volume su La civiltà africana, riportando le idee di etnologi e antropologi dell’epoca vittoriana, afferma che dobbiamo continuare a parlare di questi pregiudizi, non per puntare il dito contro i loro scellerati propagatori, ma perché essi, pur scientificamente respinti, hanno ancora un’esistenza sotterranea. Secondo lei, come si potrebbe decodificare quest’esistenza sotterranea dei pregiudizi sull’Africa e ricodificare un diverso approccio al continente africano?

Bernardo Bernardi: È difficile eliminare il pregiudizio sull’Africa, perché gli studiosi delle culture classiche si trovano davanti a una ricchezza culturale talmente vasta e profonda (cultura greca, romana, assiro-babilonese, latina, ecc.) da ritenersi pienamente appagati dal suo studio. Mi scontro continuamente con questa realtà di persone che non sentono alcun bisogno di entrare in contatto con altre culture. Con pazienza e rispetto per le posizioni altrui, bisogna mostrare anche la consistenza e la profondità delle culture africane tradizionali. Il pregiudizio è radicato e può essere superato solo rispettando l’interlocutore e mostrando la ricchezza e la profondità delle culture africane.

Touadi:La relazione fra l’Africa e l’Europa è stata, ed è, una relazione ambivalente, caratterizzata da attrazione e repulsione, sindrome della vittimizzazione (Stephen Smith, Négrologie. Pourquoi l’Afrique meurt) e riferimento obbligato al continente europeo. La miadomanda è provocatoria. Oggi, alcuni africani teorizzano l’idea del distacco metodico o comunque sostanziale dall’Europa. Affermano che cinque secoli di contatti fra l’Africa e l’Europa non hanno prodotto nulla di buono e hanno anzi peggiorato la situazione degli africani. Eboussi Bulaga, gesuita camerunese, ha scritto un libro molto forte, intitolato proprio La de-mission, nel quale afferma che è ora di rimandare a casa i missionari. È possibile oggi per l’Africa ipotizzare la scissione dei suoi legami con l’Europa?

Albert Tevoedjiré: Sono grato al prof. Bernardi per aver iniziato il suo intervento parlando dei pregiudizi. Infatti, normalmente ciò da cui si parte, ciò che si vede, ciò che si impara in famiglia, è frutto in gran parte di pregiudizi. Ricordo la prima decisione presa da Batar Ombo, senegalese, quindi africano, nero, primo segretario generale dell’Unesco, quando assunse la direzione dell’Unesco, la maggiore organizzazione mondiale della cultura. Propose un progetto, un programma incentrato su un nuovo ordine dell’informazione. La sua proposta suscitò tali e tante reazioni nel mondo che, in seguito, fu costretto ad abbandonare il suo posto. L’informazione che abbiamo veicolato per secoli era basata su una divisione del lavoro, una divisione delle razze. Chi vuole collocarsi al di fuori della categoria nella quale le circostanze lo hanno posto finisce necessariamente per sorprendere e scandalizzare. Ombo voleva una cultura condivisa, un nuovo sguardo sulle persone, un’immersione negli ambienti di vita delle persone, per poter comprendere e valorizzare i loro contributi specifici. Voleva rilanciare l’idea di Frobenius, un esploratore tedesco, ripresa da Aimé Césaire, il quale scriveva: «Civilizzare fino al midollo delle ossa. L’idea del negro barbaro è un’invenzione europea». Secondo me l’idea di distacco favorisce lo scoraggiamento. Occorre continuare il lavoro avviato da altri: ad esempio da Mandela e dai ricercatori sia occidentali che africani.

Quando ero studente un giorno un professore di francese ci citò la battuta di spirito di un generale inglese al suo governatore a proposito degli indiani che sognavano l’indipendenza: «Governatore, non si preoccupi. Questa gente vuole l’indipendenza, ebbene diamogliela. Sono certo che nel giro di dieci anni si potranno cacciare le tigri nelle strade di Calcutta». Da allora sono passati non solo dieci, ma cinquant’anni e non si cacciano le tigri nelle strade di Calcutta. Oggi, il bersaglio siamo noi. Ma prima di noi vi sono stati altri bersagli. Cinquant’anni fa si parlava delle orde babeliche dell’India. Si preconizzava la fine, la fine assoluta, del subcontinente indiano. Ebbene ho visitato dei progetti in India e ho visto che nel campo della tecnologia dell’informazione l’India è uno dei paesi da cui non si può prescindere. Io dico agli africani. Checché ne sia dei pregiudizi, aprite la finestra della tolleranza e ricordate ciò che diceva Voltaire: «E nell’Europa infine la felice tolleranza di ogni mente ben fatta diventa il catechismo». Oggi abbiamo la fortuna della tolleranza che ci consente di parlare ovunque e di impegnarci a combattere e sconfiggere certi pregiudizi. E penso che il primo pregiudizio da combattere e sconfiggere sia quello secondo cui le relazioni Europa-Africa devono essere unicamente a senso unico: dall’Europa verso l’Africa. Penso che anche noi africani dobbiamo convincere l’Europa a farci beneficiare di tutta la sua rete di collegamenti mondiali. Ho accennato all’India. La cooperazione non deve certamente limitarsi alla relazione Europa-Africa. La cooperazione è una nozione che dobbiamo condividere a livello mondiale e imparare ovunque. Gli africani non sanno costruire case con la gramigna e il bambù, mentre gli asiatici lo sanno fare. Per costruire una casa solida in una città africana occorrono normalmente 30-40.000 dollari, mentre nello Sri Lanka ne bastano 3000. Questa relazione fra noi e gli altri non è diretta, ma può benissimo passare attraverso strutture europee. Non parlo dell’Europa classica, dell’Europa dei governi, dell’Europa delle multinazionali, che hanno cose da vendere, ma dell’Europa dei popoli, dell’Europa della società civile, che può aprirci non solo la strada dell’Europa, ma anche quella del mondo. Credo veramente che i pregiudizi ci feriscano e facciano male, soprattutto il pregiudizio vincitori-vinti. Ma anche noi avevamo, e abbiamo, dei pregiudizi nei riguardi degli occidentali. In Africa non abbiamo mai visto una donna europea andare al mercato da sola e portare personalmente i suoi acquisti. Abbiamo sempre pensato che lo champagne fosse la bevanda normale, quotidiana, di tutti gli europei. Non abbiamo mai visto un europeo chiedere l’elemosina. Poi, quando siamo venuti a studiare in Europa, ci siamo accorti che gli europei erano assolutamente come noi e facevano cose che non avremmo mai immaginato che facessero: portare personalmente la spesa, chiedere l’elemosina, fare lavori umili. Il pregiudizio è qualcosa che ci viene dall’immaginario. In Europa c’era l’ìimmaginario del riso bananja e in Africa l’immaginario del comandante e del coloro sempre ben vestiti che noi servivamo come schiavi. Ora tutto questo è acqua passata. Oggi possiamo incrociare gli sguardi e riconoscere che avevano tutti torto Possiamo cominciare a guardare all’umano che c’è in ogni uomo e mettere al primo posto l’umano. Ormai il nostro compito comune è quello di umanizzare il mondo.

Touadi. Qualcuno afferma che gli africani devono fare pulizia in casa loro, prima di parlare, prima di presentarsi all’appuntamento con l’Europa. Perciò, alcuni africani lanciano provocatoriamente l’idea della necessità di un piano di aggiustamento culturale, per potersi presentare validamente all’appuntamento con gli altri. A che punto è questo piano di aggiustamento culturale africano?

Albert Tevoedjiré: Non credo che occorra strutturare tutto. Questa nostra discussione è una discussione di aggiustamento, perché giunge a conclusione che mettono in discussione il modo di parlare e di rapportarci fra di noi. Prendendo questa decisione, operiamo un aggiustamento importante, culturale e politico al tempo stesso. Le notizie sull’Africa sono ancora brutte notizie, perché la rete dell’informazione mondiale privilegia le brutte notizie. Non si parla mai del coraggio delle donne africane che ogni mattina si alzano alle cinque per riuscire a mandare avanti la loro famiglia, del miracolo dei villaggi africani che riescono a sopravvivere, a fare piccoli profitti, a mandare a scuola i bambini, del coraggio delle persone anziane – ad esempio in Costa d’Avorio – che devono sopportare ogni giorno la presenza di soldati che sconvolgono la vita quotidiana in un paese che è stato ed è uno dei grandi produttori di materie prime, del coraggio eroico di certe comunità che riescono a conservare il livello della loro produzione agricola nonostante che tutta vada a catafascio. Sono cose straordinarie di cui nessuno parla. Credo che occorra avere un altro piano per i produttori africani che preveda che cosa produrre, con chi associarsi, con chi commerciare… Ecco un impegno concreto. Purtroppo noi tendiamo a fare della letteratura, mentre occorre impegnarsi concretamente, perché l’azione cambia la condizione. Prendete, ad esempio, il Giappone, che è diventato uno dei grandi paesi con cui bisogna fare i conti. Quando ero studente i transistor giapponesi erano considerati di pessima qualità e disprezzati da tutti. Oggi la loro produzione è considerata all’avanguardia. Credo che gli africani abbiamo paura di se stessi, mentre dovrebbero avere coraggio. Nel mio libro La Povertà ricchezza dei popoli insistevo molto sull’alimentazione. Se volete sapere se un paese è pronto a gestire validamente il proprio sviluppo dovete guardare a ciò che mangiano i suoi governanti. Se mangiano caviale e altri cibi prelibati provenienti dall’Occidente e bevono champagne, potete ragionevolmente concludere che per quel paese non c’è speranza. Se invece valorizzano i cibi locali o comunque africani, allora c’è speranza. Infatti, la gente imita sempre i propri governanti e dirigenti. Segue il cuoco del presidente quando va al mercato e osserva ciò che compra per la mensa del suo capo. Tutti sanno che cosa comprano e mangiano il presidente, i membri del suo governo, i funzionari, i notabili e cercano di imitarli. Durante un colpo di stato in Nigeria i soldati bombardarono le casse di champagne appena giunte al porto, per mostrare chiaramente che non ne volevano di quella roba lì  Bisogna far comprendere agli africani che ciò che hanno è valorizzabile e che altri lo ricercano. Bisogna affidare agli africani una missione nei riguardi degli altri. Personalmente non condivido l’idea del distacco. La considero negativa. Bisogna essere al centro, essere insieme, ma restando se stessi e aprendo nuove strade. Gli indiani non hanno avuto bisogno di staccarsi dall’Inghilterra. Occorrono certamente delle regole, dei meccanismi, ma il distacco non può funzionare perché il mondo è uno. La creazione del proprio piccolo mondo africano non potrà mai funzionare.

Touadi. Spesso mi chiedono se noi africani, con la classe politica corrotta che ci ritroviamo, possiamo additare qualche esempio di leadership politica positiva. Rispondo citando Nelson Mandela, il caso certamente più eclatante, ma anche Lumumba (cf. Aimé Césaire, Une saison au Congo), Thomas Sankara; Julius Nyerere ed altri. Ricordo che a un ricevimento ufficiale in onore del presidente della Repubblica francese, Thomas Sankara, fedele al suo slogan «mangiamo burkinabé», fece servire agli illustri ospiti cibi locali, ricevendo ogni sorta di insulti da parte dei membri della delegazione francese e degli altri capi di stato africani («Ha ricevuto il presidente della Repubblica francese come un selvaggio»). Purtroppo tutti coloro che hanno osato battere nuove strade e fare il contrario sono stati uccisi: Lumumba (1961); Thomas Sankara (1987); Amilcar Cabral, ecc. I migliori leader africani sono stati uccisi, mentre i peggiori (Mobutu, Eyadema, Bongo, Amin) sono rimasti a lungo al potere.

Albert Tevoedjiré diceva che noi stiamo facendo un aggiustamento culturale mediante iniziative dal basso in materia di cibo, agricoltura, attenzione alle aspirazioni essenziali e profonde delle persone. Lei, prof. Bernardi, ci ha parlato dei pregiudizi. Alcuni africani sostengono che è inutile fare prediche di natura etica o morale agli europei, perché non le comprendono e non le accettano. Dicono che agli europei bisogna parlare del loro interesse a fare qualcosa. Le chiedo: L’Europa può vedere un interesse a occuparsi dell’Africa?

Bernardo Bernardi: Credo che la risposta possa essere positiva. Bisogna comunque distinguere fra persone e persone. Tony Blair e Veltroni hanno interessi specifici e molto concreti per l’Africa. La questione dell’alimentazione è una fase attraverso la quale è passata anche l’Europa. L’attuale alimentazione europea è basata interamente su produzioni americane. Pomodoro, mais, tacchino ci sono venuti dall’America. Sono adattamenti culturali di cui bisogna tenere conto, tenendo presente anche il riflesso che hanno sui rapporti etnici in quanto tali. L’alimentazione distingue molto chiaramente etnia da etnia, piccole etnie da etnie più grandi. In Kenya, ad esempio, le etnie si distinguono fra di loro in base alle abitudini alimentari. Anche in Italia le regioni si distinguono in base alle abitudini alimentari. Un bolognese può trovare sgradevole la cucina romana. Lo stesso avviene in Africa. Vi sono diversità alimentari anche fra bantu geograficamente molto vicini. In Kenya, ad esempio, i meru, pur essendo cugini dei kikuyu, hanno abitudini alimentari diverse da questi ultimi. Ma in questo campo si avverte ormai da molto tempo e non solo da oggi l’influenza della globalizzazione: si mescolano usi e costumi che un tempo distinguevano le varie popolazioni; oggi le popolazioni si incontrano e, grazie a Dio, l’incontro è più facile di quanto non fosse anche solo in un recente passato. L’incontro porta anche alla fusione degli stili di vita e delle abitudini alimentari, con particolari adattamenti. Sono fenomeni culturali che possono avere anche aspetti politici, ma sono fenomeni normali di fronte ai quali non dobbiamo avere alcun pregiudizio e molto rispetto.

Penso che l’Europa abbia interesse a entrare in contatto con l’Africa. In genere non si esprime questo interesse in modo esplicito nei riguardi dell’Africa, ma più in generale nei riguardi del Sud del mondo, includendovi ovviamente anche l’Africa. Ho avuto molti contatti con singole ONG e singole persone che si sono dedicate a iniziative particolari, articolate, molto ricche. Se fossi uno storico svilupperai questo tema, perché è molto ricco. Bisognerebbe che qualcuno facesse la storia di questi fenomeni, di queste realizzazioni. L’interesse per l’Africa esiste realmente, come dimostrano anche i medici (CUAM, Padova), i tecnici (Piemonte). Queste iniziative si moltiplicano. C’è solo la difficoltà di registrarle. Non c’è, credo, provincia o comune che non abbia una sorta di gemellaggio con città o villaggi africani o di altri continenti, L’interesse c’è e va crescendo, facendo parte proprio di quel processo di conoscenza cui alludevo sopra e favorendo il superamento dei pregiudizi che ancora sussistono.

Touadi: Qualcuno, parla della solitudine geopolitica dell’Africa in questo momento, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino. L’Europa ha scoperto l’eldorado dell’Est europeo, e giustamente, vedendovi la possibilità di creare l’unità del continente. Ma l’Europa ha scoperto anche la necessità di un aggiustamento interno in vista della moneta unica, poi ha scoperto il terrorismo, Shenghen e ha cominciato a ripiegarsi sempre più su se stessa. Nel frattempo, in Africa stanno arrivando la Cina, le correnti islamiste nella parte orientale del continente. Ormai l’Europa in Africa ha un’esistenza residuale. Alcuni mesi fa Berlusconi, presidente del consiglio dei ministri, nonché ministro degli affari esteri, diceva: «Le nostre ambasciate all’estero devono trasformarsi in agenzie di promozione del made in Italy». Che cosa perderebbe l’Africa se venisse a mancare questo contatto di lunga data, per quanto travagliato, con l’Europa a vantaggio della Cina e delle correnti islamiste?

Albert Tevoedjiré: Penso che la domanda risponda alla sua preoccupazione fondamentale nei riguardi degli africani che parlano di distacco. Nella nostra situazione si impone un distacco parziale. Quando si tratta degli uomini, nulla è eterno. Quando vediamo persone che si aggrappano al potere, diciamo: Ecco un uomo assolutamente precario che pretende di esercitare un potere eterno. C’è la situazione precaria delle nostre relazioni. Il fatto che l’Europa occidentale cerchi degli aggiustamenti, degli accomodamenti con l’Europa orientale e nutra delle preoccupazioni nei suoi riguardi, ci offre la possibilità di uno spazio di libertà, di riflessione, di iniziativa che non è affatto pregiudizievole per l’Africa, ma deve essere visto con favore. È un’occasione per prendere l’iniziativa, per cogliere il vantaggio che ci viene offerto. Non parlerei di solitudine geopolitica. Quando si parla di cooperazione con un paese bisogna assolutamente mostrare le cifre. Nonostante la sua situazione, l’Africa offre ancora molte, molte materie prime e molte ragioni, perché le imprese, gli stati, le compagnie aeree si interessino concretamente ad essa. Siamo franchi, mostriamo le cifre, vediamo le ragioni per le quali alcuni cercano affannosamente dei mercati. Ci sono ancora molte cose non scoperte dall’Africa, che spingono gli occidentali, e non solo, a recarvisi. Sanno che in Africa si possono trovare ancora molte cose, sanno che esistono molte opportunità economiche sul continente africano. I cinesi sono franchi e trasparenti quando parlano di un Ministero del commercio e della cooperazione estera. Non c’è solitudine geopolitica dell’Africa. Non si conoscono probabilmente certe cose, ma le persone vi si interessano. E sta agli africani trovare la formula giusta per una relazione reciprocamente costruttiva fa Europa e Africa. Il fatto che l’Europa trovi delle opportunità in Europa, offre agli africani delle opportunità per una cooperazione più equilibrata e per una migliore gestione delle ricchezze che possiedono e che devono ancora scoprire.

 

 

Domande del pubblico

– Enzo Barnabà. Oggi tutti sanno che Thomas Sankara è stato ucciso dall’attuale presidente del Burkina Faso. Chiedo ai relatori che cosa pensano di questo assassinio e del fatto che un assassino sia presidente di una Repubblica africana.

– Zacharie del Burkina Faso. Poiché i nostri governanti sono praticamente tutti corrotti, non sarebbe meglio che l’Occidente, gli intellettuali occidentali e le ONG occidentali cominciassero a collaborare direttamente con gli agricoltori e le classi più povere per facilitare lo sviluppo? A livello di classe dirigente esistono troppi passaggi, troppi intermediari, favorendo così la corruzione.

– Rosetta Pellegrini. Oggi, abbiamo una nuova generazione di studenti. Gli africani, in genere molto critici nei riguardi dei loro governi, dovrebbero elaborare delle norme per la cooperazione, che prevedono e richiedono l’impiego dei giovani africani che studiano e lavorano qui da noi. Dovrebbero esigere che gli europei che si recano in Africa per realizzare dei progetti collaborino strettamente con le persone che hanno aiutato a formare e che si trovano qui da noi. Anche i governi africani dovrebbero porre queste condizioni all’Europa in materia di cooperazione. È assurdo affidare ricerche sui bambini di strada a Nairobi al personale bianco delle agenzie internazionali, pagandolo milioni e milioni di dollari, quando qui da noi vi sono centinaia di giovani africani laureati che si arrangiano per sopravvivere. Sta crescendo una nuova generazione di africani preparati e qualificati, non ideologizzata e critica nei riguardi dei governi africani. Occorre una strategia politica per coinvolgere tutte queste energie, curandole e sostenendole sia in Europa che nei paesi africani.

– Traore Sakaria della Costa d’Avorio. Ci è stato detto che dobbiamo essere ottimisti riguardo all’Africa e al tempo stesso che coloro che hanno cercato di cambiare la situazione sono stati emarginati e spesso uccisi. Purtroppo fra noi e gli europei ci sono i personaggi meno raccomandabili del continente africano. Che cosa proponete se le voci sane dell’Africa non vengono ascoltate e coloro che sanno qualcosa vengono sistematicamente emarginati?

– Giovanni. Mentre noi in Europa conoscevamo come forma di governo praticamente solo la monarchia assoluta, in Africa esisteva una grande varietà di forme di governo delle persone e delle comunità, che noi abbiamo sistematicamente e brutalmente eliminato, senza peraltro riuscirvi del tutto. Ciò che è avvenuto nella Commissione Verità e riconciliazione in Sudafrica ha dell’incredibile. L’esistenza di un tribunale che riconosce le colpe, ma non eroga le pene, è una novità assoluta alla quale, secondo me, solo gli africani potevano pensare. Come mai si valorizza così poco questa realtà, che pure esiste in Africa? In fondo noi occidentali parliamo sempre di economia, una materia sulla quale abbiamo sempre qualcosa da dire, ma non parliamo mai delle materie nelle quali gli africani sono da sempre assolutamente superiori ai noi: l’ingegneria sociale e le forme di governo.

– Donata del Commercio equo e solidale. A parte qualche ONG, non mi sembra che esista quel grande interesse per il Sud del mondo di cui ha parlato il prof. Bernardi. Mi piacerebbe che mostrasse maggiormente dove vede questo grande interesse che io non vedo sia in genere sia in campo commerciale.

Riguardo alla situazione geopolitica dell’Africa e all’apertura dell’Europa a est. Per dirla brutalmente, nella mia piccola esperienza di cooperazione allo sviluppo ho notato che, in seguito all’apertura dei mercati a est, la cooperazione europea ha drasticamente ridotto gli aiuti all’Africa. Perciò ho pensato che il vero obiettivo non fosse quello di aiutare i paesi dell’Europa orientale, ma di aprire nuovi mercati e incrementare i profitti. I mercanti europei hanno cercato per decenni di aprire verso l’Africa, ma l’Africa non ha risposto e le loro aspettative sono andate deluse. Secondo me, è una fortuna che non abbia risposto e vedo in questo anche la grande dignità interiore dei popoli africani. La cooperazione è dettata quasi esclusivamente dalla preoccupazione di aprire nuovi mercati o si può sperare in una cooperazione un po’ più disinteressata, in una cooperazione fra le persone?

– Marie Régine Esomba, del Camerun, studentessa di comunicazioni sociali. Alla base delle relazioni che l’Europa stabilisce con l’Africa a livello politico ed economico c’è una mentalità perversa: l’europeo si sente il donatore e l’africano il medicante. Quale messaggio si può lanciare anzitutto alla nuova generazione di studenti africani e poi ai popoli africani e al mondo intero?

– Njok, poeta camerunese. Parlando dell’Africa e degli africani, un giorno un premio Nobel svedese diceva: «Li vogliamo veramente aiutare, lasciamoli stare». A mio avviso, ma forse sbaglio, l’unico vero problema che ha avuto l’Africa è stata l’ingerenza degli altri. Il suo sviluppo era il suo sviluppo, le sue cose erano le sue cose.

Un proverbio africano dice: «Quando vai a cercare acqua non puoi attraversare il fiume». Mi chiedo come mai italiani, inglesi, francesi non si rendano conto che nessuno può attraversare il fiume se va a cercare acqua. Gli europei partono dall’Europa per andare ad aiutare l’Africa e sputano in faccia a tutti gli africani che sono qui da loro, i quali, se guadagnano cento euro, ne spediscono almeno trenta alle loro famiglie di origine. È possibile che l‘Europa sia così ottusa da non vedere che solo aiutando gli africani che sono qui può aiutare veramente l’Africa o ha altri interessi e altre cose da andare a fare laggiù?

– Riccardo. Noi siamo una società civile e parliamo dell’Africa, ma siamo testimoni di ciò che sta avvenendo in Iraq e forse domani avverrà in Iran, senza riuscire a fare nulla per fermare una cosa così insensata. Che speranze possiamo avere di cambiare le sorti dell’Africa se non possiamo fare nulla per l’Iraq? 

Risposte dei relatori

Bernardo Bernardi

Riguardo al problema del Sud sono ben conscio di ciò che significa anche il Sud America. Come africanista ho sentito il bisogno di recarmi anche nell’America del Sud: Carabi e poi giù giù fino all’Argentina. Volevo rendermi conto dell’interesse di quei popoli, soprattutto dei discendenti degli schiavi africani, per l’Africa. In passato, i moroni, discendenti degli schiavi, avevano costituito in America Latina una loro repubblica. Poi erano tornati a vedere i paesi da cui erano stati deportati ed erano rimasti talmente delusi che erano ritornati indietro. A Cartagena, in Colombia, i discendenti degli antichi schiavi africani non dimostravano alcun interesse per l’Africa. Eppure Cartagena era il porto dove approdavano e scendevano gli schiavi, era il mercato dove venivano venduti a prezzi variabili secondo la capacità della loro mascella. Il Brasile, il paese mas grande do mundo, non è certamente il paese di bengodi, tutt’altro, ma lì la gente cerca di andare d’accordo. Mentre aspettavo l’aereo che mi doveva portare da san Paolo a Rio de Janeiro fui colpito da un bianco e un nero che continuarono tranquillamente a chiacchierare, a divertirsi e a farci divertire con le loro battute e risate. Mi accorsi che in Brasile il colore della pelle non si accompagnava a quel senso di disprezzo che avevo registrato altrove. Anche in Argentina, una colonia formata da tedeschi, italiani e anche di inglesi, non esiste alcun interesse per l’Africa.

Parlando del Sud mi riferisco all’Africa e non all’America Latina. Insisto su questa posizione, perché la trovo confermata dai miei colleghi e dalla letteratura in mio possesso.

Riguardo alla questione dei personaggi, vorrei partire da Shaka, che è stato detto a ragione il Napoleone dell’Africa. Poi penso a una figura come quella di Jomo Kenyatta, che è stato indubbiamente un grande uomo. Liberato dalla prigionia, si rivolse agli europei e collaborò con loro per il bene del suo paese. Dimenticò tutto quello che aveva sofferto e disse agli europei: «Se lavoriamo insieme possiamo fare molto». Penso a Julius Nyerere, presidente della Tanzania, che ha esercitato il potere e non si è lasciato corrompere da esso. Penso anche a Kwame Nkrumah, che aveva suscitato un grande entusiasmo in noi giovani. Decadde quando il potere gli diede alla testa e non esitò ad attribuirsi il titolo di Redentore. A un certo punto il potere corrompe e pochi riescono a sfuggire a questa corruzione. Persino in grande Shaka venne ucciso per aver oltrepassato quello che doveva essere il compito di un condottiero. Questo argomento mi affascina. Se fossi uno storico cercherei di illustrare queste grandi figure di condottieri africani. In Africa sono esistiti ed esistono, anche dal punto di vista semplicemente antropologico, grandi personaggi, che sono emersi da un preciso contesto culturale e hanno contribuito a costruirlo. Il grande Kenyatta ha avviato il nuovo Kenya, ma il suo successore non è stato altrettanto grande, per cui quel paese ha cominciato subito a decadere finendo poi per essere travolto dalla corruzione. Andreotti diceva che il potere rode chi non ce l’ha, ma può rodere e corrodere anche chi ce l’ha. Naturalmente, in Kenya, la corruzione esisteva anche ai tempi di Kenyatta, ma era talmente ridotta da non raggiungere neppure il livello che raggiunge nei normali governi europei (cf. la biografia di Jomo Kenyatta). Perciò, anche in materia di corruzione, bisogna essere oggettivi e sapere distinguere fra persona e persona, contesto e contesto, storia e storia.

Albert Tevoedjiré

Ricordo un’espressione di Lincoln, uno dei fondatori della democrazia americana: «Questo paese con le sue istituzioni appartiene al popolo che lo abita. Quando sarà stanco del governo esistente, deve poter esercitare il suo diritto costituzionale di censurarlo o il suo diritto rivoluzionario di rovesciarlo». Lincoln ha fatto quest’affermazione il giorno in cui è entrato in carica. Noi africani abbiamo la nostra parte di responsabilità riguardo ai nostri governi. Ai giovani qui presenti do un primo consiglio: se sono studenti, siano studenti perfetti; se sono lavoratori, siano lavoratori perfetti. Si impegnino a essere sempre fra i primi, diano quest’impressione ai loro compagni di classe o di lavoro, non cerchino sconti per il fatto di essere neri, dimostrino ai loro professori, formatori, datori di lavoro di essere competenti. Tutto questo conterà molto in seguito. A volte si parla di Kizerbo. Non mi meraviglio, perché era molto impegnato e brillante già da studente. Questo è molto importante. Qui dovete dare questa impressione e non essere persone senza arte né parte.

In secondo luogo, ai miei tempi esisteva il cosiddetto impegno decennale. Quando si partiva per motivi di studio, ci si impegnava a ritornare dopo dieci anni a servire lo stato che aveva concesso la borsa di studio. Bisogna che ogni africano coltivi questa convinzione interiore. Alcuni, per varie ragioni, non avranno la possibilità di rientrare nei loro paesi di origine, ma altri possono, e a mio avviso, devono rientrare. Io vi consiglio di fare la buona scelta: avere amici qui e ritornare là a collaborare al risanamento e allo sviluppo del vostro paese che sta morendo. E gli amici che avete qui e altrove potranno sostenervi in questo vostro impegno. Questa è una scelta intelligente e strategica al tempo stesso.

In terzo luogo, ritengo che sia importante sviluppare la cooperazione diretta. Oggi, la cooperazione è stata finalmente liberata. Esistono strutture che comprendono e sono disposte a collaborare direttamente là dove è possibile. Occorre quindi aprirsi alla cooperazione, ma precisandone il concetto e il contenuto, in base alle linee che ho cercato di esporre nel mio intervento precedente. Voi siete i beneficiari della cooperazione. Sarei ben felice se, a partire dal prossimo anno, giovani europei, italiani, asiatici, giapponesi, ottenessero il mandato sabbatico di andare a conoscere l’Africa, a vivere con gli africani, a farsi degli amici in Africa. Questo cambierebbe molto la mentalità e lo sguardo. Non sarebbero militari, non sarebbero turisti, ma giovani disposti a fare un culturalmente intelligente, ad andare a vedere, ad ascoltare, a imparare. Giovani che preparano la loro partenza con letture, contatti con gli africani che vivono nel loro ambiente e che possono introdurli a una prima conoscenza dell’Africa. Come si va in Inghilterra, in Spagna per studiare la lingua, così si potrebbe e dovrebbe andare in Africa. Insisto molto su questo nuovo tipo di cooperazione che resta da inventare, pianificare, organizzare, attuare .

Vorrei terminare dicendo ai nostri amici italiani che gli africani non hanno solo delle qualità, ma anche dei difetti. Come tutti, come ovunque nel mondo. È importante che sappiate che noi siamo lucidi riguardo a noi stessi e che voi dovete essere lucidi insieme a noi e aiutarci a essere lucidi su noi stessi, dicendoci quali sono gli ostacoli allo sviluppo se facciamo questo o quello. I giapponesi, i cinesi, gli indiani hanno raggiunto i loro attuali traguardi grazie al lavoro, all’organizzazione, al loro genio, ma anche grazie all’analisi e alla progressiva riduzione dei loro difetti. La franchezza e la verità devono spingerci a dirci che dobbiamo camminare insieme, stare in piedi, essere uomini, collaborare su un piano di parità per uno sviluppo comune.

Domande del pubblico

– David Monticelli. Mi sembra che finora non siano emersi dati sull’evoluzione della situazione africana recente, che purtroppo è peggiorata rispetto al passato. Qui parliamo di cooperazione e di sviluppo, pensando magari di essere all’inizio di un’inversione nelle relazioni Europa-Africa, tradizionalmente caratterizzate dallo sfruttamento, ma l’analisi dei dati macroeconomici degli ultimi dieci-quindici anni evidenzia un costante peggioramento da tutti i punti di vista. Anche se il PIL africano è aumentato del 3,10% nella seconda metà degli anni ’90, il reddito pro capite annuo è sceso da 710 dollari a 651 dollari, per cui un africano medio ha dovuto campare con 1,78 dollari al giorno contro 1,92 dollari nel 1995. Ciò significa che abbiamo una visione edulcorata dalle nostre passioni, perché di fatto la musica fra l’Europa, e più in generale l’Occidente, e l’Africa non è affatto cambiata.  Il 45% della popolazione africana vive al di sotto della soglia della povertà assoluta.

– Jacques Zahiga, studente di economia all’università di Ancora. Per me i rapporti Europa-Africa sono rapporti di forza, fra il forte e il debole, lo sviluppato e il sottosviluppato, il ricco e il povero, l’istruito e il sotto-istruito. L’europeo è egoista, accumula, persegue i suoi interessi. Questo rapporto si ritrova anche nella cooperazione fra l’Europa e l’Africa. Nei suoi rapporti con l’Africa l’europeo persegue anzitutto i suoi interessi. Ad esempio, quando un europeo fa dei progetti in Africa, si serve di europei e non di africani per realizzarli. Utilizza europei che non conoscono la realtà dell’Africa e scarta coloro che la conoscono. Il rapporto fra Europa e Africa è un rapporto di strategia politica per mantenere l’Africa nella povertà e nella miseria. Quando sono arrivato qui due anni fa, volevo fare la mia tesi sulla crescita economica in Congo. La proposi a un professore, il quale si rifiutò di dirigermi, affermando che dal punto di vista economico l’Africa er inesistente, per cui non si poteva svolgere una tesi su quel tema. Si rivolsi allora a un altro professore, che si interessava si problemi dello sviluppo, il quale accettò di dirigermi semplicemente per ragioni accademiche. Mi disse molto francamente: la vostra situazione in Africa è una situazione creata dalla storia delle relazioni che noi conosciamo fra Europa e Africa. È una situazione voluta, coltivata e che continuerà ancora a lungo se non fate attenzione. I paesi ricchi hanno deciso di mantenervi nella vostra situazione di povertà e di miseria. Che cosa pensano i nostri due relatori di tutto questo? Che cosa possiamo fare noi africani per uscire da questa situazione è stata voluta e viene intrattenuta attraverso ogni sorta di conflitti e di guerre?

– Bibokoto. Finora nessuno ha parlato dell’ipocrisia dell’Europa. Sappiamo tutti che i nostri governi hanno tutti fallito o perché sono stati corrotti o perché sono stati mal consigliati. I dittatori africani hanno portato via un sacco di soldi dall’Africa, depositandoli nelle banche svizzere o altrove in Occidente. Fino al 1979 l’Africa era un continente molto equilibrato. Poi improvvisamente si è trovata sommersa da un mare di debiti, a causa dei prestiti e delle false promesse della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale e della corruzione dei dittatori. I dittatori sono morti e i soldi sono rimasti in Europa. Chiedo all’Europa di investire questi soldi, che sono nostri, in Africa. Per aiutare l’Africa dovete fare pressioni sui vostri governi, affinché sblocchino questi soldi e siano investiti in Africa, nei paesi dai quali sono stati esportati.

– Bienvenu Kasole, del Congo. La cooperazione e lo sviluppo durano già da molti anni, ma con scarsi risultati, perché gli aiuti destinati all’Africa ritornavano in gran parte, sotto varie forme, nei loro paesi di origine. È certamente un peccato dire che non si può fare nulla con il pretesto che non si può fare tutto. Ma io penso che il vero sviluppo, lo sviluppo sostenibile, cominci là dove uno vive. Un filosofo ha detto che la seconda bomba atomica, dopo quella di Hiroshima, sarà quella della comunicazione, che può porre fine all’umanità. Il vero sviluppo comincia là dove uno vive. Che cosa potrebbero rimproverarci i relatori riguardo ai nostri rapporti interafricani in materia di cooperazione e di sviluppo, prima di prendere in considerazione le relazioni fra europei e africani?

– Anastasio. Da tutto ciò che si è detto mi sembra emergere la richiesta di un’Africa che si sviluppa autonomamente, in base alle sue culture, alle sue esigenze, anche per riparare gli errori fatti finora. Ma, a mio avviso, questo è problematico. Un’autonomia ha senso se è integrata in un’economia globale, perché l’Africa non può vivere da sola. Personalmente non vedo vie di uscita. La rappresentatività africana a livello mondiale è nulla; la tecnologia africana è nulla; la ricerca scientifica africana è nulla; i mezzi di comunicazione sociale africani sono nulla. Come è possibile affermare uno sviluppo autonomo dell’economia o della cultura africana? L’Africa è vulnerabile, è sguarnita da ogni punto di vista, ma soprattutto in campo economico e tecnologico. Perciò l’unica via di uscita può essere solo la rinuncia da parte di noi occidentali ai nostri privilegi, a certe nostre ricerche, facendo spazio anche agli altri popoli. Infatti a livello di equilibrio di forze e scontro di forze non si risolve nulla.

– Abdullah, del Senegal. Ho spesso sentito dire che l’Africa è povera, priva di tutto. Non concordo con questa visione. Penso che non sia povera e priva di tutto, ma solo divisa, come dimostrano i conflitti e le guerre che scoppiano continuamente qua e là. Penso che dobbiamo educare i giovani, dare loro una coscienza. Bisogna unire, smettere di valorizzare le etnie, le religioni. In Senegal esistono molte etnie, varie religioni, e tuttavia noi ci comprendiamo. Altrove invece ci sono conflitti, guerre. Penso che gli europei debbano fare qualcosa per risolvere questi conflitti di interesse, per porre fine a questi colpi di stato, a queste guerre. Noi africani dobbiamo, insieme agli europei, lottare per l’estromissione dal potere di presidenti e funzionari corrotti e a volte criminali.

Risposte dei relatori

Jean-Léonard Touadi

Riguardo ai soldi dei presidenti africani esportati all’estero. La Nigeria è riuscita a rimpatriare una parte, solo una parte, di ciò che Shani Abasha aveva depositato in Svizzera. Due anni fa la Banca di Roma ha potuto ricondurre a Mobutu Sese Seko un conto anonimo sul quale erano depositati 40.000 dollari, dichiarando di non sapere che cosa fare di quei soldi. Non so come sia andata a finire la cosa, ma la soluzione sarebbe molto semplice: riportare il danaro là da dove è venuto, in questo caso nella Repubblica democratica del Congo.

Bernardo Bernardi

L’Economist del gennaio 2004 riportava in copertina questa scritta: Come fare sorridere l’Africa. Cominciava con il dire che i mali dell’Africa sono tanti. Ma concludeva affermando che oggi i giovani africani hanno una visione molto diversa del loro continente e provano un profondo senso di disgusto di fronte ai loro governanti corrotti e corruttori. I giovani africani sono la speranza dell’Africa.

Albert Tevoedjiré

Sottolineo brevemente tre punti.

Anzitutto, ciò che è stato detto sul rapporto di forze. È importante ed è vero. Ma quando si è piccoli e deboli e occorre battersi nella vita, bisogna saperlo fare. Oggi, noi siamo Davide davanti a Golia. Noi conosciamo il nostro terreno, la nostra Africa. Sta a noi organizzarci in modo da cooperare con gli altri diversamente da come essi desiderano e sognano.

In secondo luogo, riguardo all’Africa autonoma. Nell’Africa occidentale abbiamo un’enorme fortuna che non sfruttiamo: una comunità economica degli stati dell’Africa occidentale, nella quale vi sono circa 250 milioni di consumatori. Anche l’acqua potabile prodotta in Senegal o in Costa d’Avorio e venduta a 250 milioni di consumatori è una ricchezza. Il grano che importiamo ci impedisce di vendere a 250 milioni di consumatori il mais e il miglio. Il nostro è un comportamento irresponsabile. Dovremmo essere più intelligenti e organizzare meglio la comunità economica dell’Africa occidentale. Oggi, i suoi paesi membri si occupano più del conflitto in Costa d’Avorio o delle elezioni in Togo che dell’organizzazione della economia regionale africana. Nessuno pensa seriamente a come si potrebbe organizzazione questo spazio economico regionale, che è nostro.

In terzo luogo, lancio un appello ai giovani. In base alla nostra esperienza sappiamo che smuovere gli altri occorrono locomotive, avanguardie, pionieri, persone che si impegnano a fondo.  Abbiamo una gioventù che risplende nel sole di Dio, come dice Claudel. Abbiamo assolutamente bisogno di questi giovani, convinti, impegnati, saggi, che conoscano la strategia da seguire, che abbiano il coraggio di Davide e affrontino Golia, Leviathan. Nel mercato africano vedo giovani creativi, inventivi, che fabbricano oggetti di ogni sorta, spesso a partire da materiali di ricupero, oggetti che i turisti comprano. È una cosa straordinaria. Sono convinto che i giovani africani sono la forza di cui disponiamo per cominciare a cambiare. Se i coreani l’hanno fatto, gli indiani l’hanno fatto, i giapponesi l’hanno fatto, non c’è alcun motivo di pensare che gli africani, che hanno costruito le piramidi, che hanno inventato lo zero, che hanno fatto scoperte matematiche, non siano in grado di farlo. Ex Africa semper aliquid novi. Dall’Africa può venire sempre qualcosa di nuovo. Bisogna solo impegnarsi e lavorare. Questo è il nostro e soprattutto il vostro compito di giovani africani.

ALBERT TEVOEDJRE’ Economista e sociologo. Nel 2003 è stato nominato Rappresentante speciale per la Costa d’Avorio in seno all’Onu, dopo essere stato – sempre per le Nazioni Unite – Coordinatore del progetto «Millénaire pour l’Afrique». Precedentemente è stato ministro del lavoro e dell’economia in Benin dal 1991 al 1996. Nel suo paese ha ricoperto altri alti incarichi istituzionali e politici. M. Tevoedjre ha pubblicato numerosi articoli sullo sviluppo politico, economico e sociale dell’Africa. Nel libro intitolato  «Pauvreté, richesse de l’humanité» (Povertà ricchezza dei popoli), egli offre la sua concezione del «Contrat de solidarité».

BERNARDO BERNARDI  Antropologo, già docente presso l’Università “La Sapienza” di Roma

JEAN-LEONARD TOUADI  Congolese, giornalista e scrittore. “Africa la pentola che bolle”  (2003-EMI) e “Congo” (2004-Ed.Riuniti) sono i suoi ultimi libri. Scrive tutti i mesi su ‘Nigrizia’

Dibattito assembleare con i relatori della giornata

Domande del pubblico

– David Ponticelli: Dietro ai cosiddetti aiuti alimentari europei all’Africa si nascondono spesso strategie di penetrazione delle nostre merci o dei nostri prodotti agricoli nei mercati africani. Fin dagli anni 1980 le ONG europee hanno contestato le politiche agricole comuni (PAC) e le loro massicce esportazioni di prodotti alimentari in Africa (oltre l’80% degli aiuti globali), con la conseguente distruzione delle economie agricole locali. Chiedo a Sarr, e anche agli altri relatori, se non occorra valutare più criticamente i cosiddetti aiuti alimentari, soprattutto cerealicoli, dell’Europa all’Africa?

– Nicola. Mi sono recato spesso in Africa per migliorare la conoscenza di quelle culture e realtà. Parlando con ragazzi e giovani africani ho sempre fatto molta fatica a fare loro comprendere che qui da noi in Occidente le cose non sono così rosee come loro immaginano. Spesso non sono riuscito a fare loro comprendere che a volte qui in Occidente si può stare peggio che da loro.

– Giancarlo. Chiama l’Africa significa chiama l’Africa, ma anche chi ama l’Africa. Personalmente preferisco questa seconda interpretazione. Noi qui siamo tutte persone che amano l’Africa. Ho trovato molto interessante la presentazione dell’immaginario italiano sull’Africa. Il prof. Albert Tevoedjiré ci ha chiesto di fare un percorso politico, di assumere un impegno politico, se vogliamo essere veri uomini. Io sono nato e cresciuto in Africa. Vorrei chiedere a tutti i presenti di sottoscrivere un documento che riassuma le idee siamo venuti portando avanti in questi ultimi quattro anni in questi nostri convegni, in modo da sostenerci a vicenda nella loro attuazione. Purtroppo non tendiamo a parlare, parlare, senza fare mai nulla di concreto. Ci comportiamo come chi invita ogni mese una ragazza al ristorante e poi non fa nulla con lei: non si fidanza, non si sposa, non mette su famiglia.

Ecco alcune proposte concrete. Abbiamo un sito Internet ben fatto. Si potrebbe costituisse un gruppo di lavoro per presentarlo anche in versione francese, inglese e portoghese, in modo da renderlo accessibile anche alle società civili africane e alle società civili a livello internazionale.

I nostri mercati invasi da migliaia di prodotti provenienti da ogni parte, soprattutto dalla Cina, ma che non sono più competitivi. Così il presidente della Repubblica italiana e molti imprenditori si sono recati in Cina, in India, e hanno chiesto a quei paesi di fissare delle regole, di stabilire un partenariato. Ciò che abbiamo fatto qui oggi è innovativo e merita attenzione. Noi come Chiama l’Africa, anche con le altre organizzazioni qui presenti, non abbiamo la forza di andare dal presidente della Repubblica a proporre un nuovo modo di gestire la cooperazione con l’Africa. Finora l’Italia, paese ricco, ha il coltello dalla parte del manico. Ma dobbiamo trovare un coltello e metterlo in mano agli africani con la lama rivolta verso l’Italia e l’Occidente in generale. D’altra parte noi vogliamo lavorare dal basso, per cui, una volta elaborato il nostro documento, averlo sottoscritto e tradotto nelle varie lingue, dobbiamo trasmetterlo alle società civili africane, in modo che possano discuterlo ed elaborarlo secondo le loro necessità a livello locale e a livello continentale, con il sostegno del governo o delle organizzazioni ufficiali, creando agenzie di sviluppo e forme nuove di sviluppo.

– Nel suo intervento su disonora lo sviluppo il relatore ha presentato lo sviluppo come negativo, tacendo i suoi aspetti positivi. Noi avevamo uno studio informale, mentre lo sviluppo ci ha portato uno studio formale, per cui ci ha collegati con tutto il mondo. C’è poi la tentazione di addebitare tutti i problemi dell’Africa all’Occidente. Spesso dimentichiamo i nostri conflitti interni. Prima del colonialismo, c’erano, ad esempio, le guerre tribali. Avevamo già dei problemi. I nostri problemi non sono stati causati unicamente dallo sviluppo. Lo sviluppo ha creato dei problemi non perché è un problema in sé, ma perché ha perseguito l’assimilazione invece dell’inculturazione. Attualmente cerchiamo di inculturare lo sviluppo e la cultura africana non costituisce un problema. Secondo me, lo sviluppo è una realtà molto positiva.

– Ho scelto come tesi di dottorato il tema dell’evoluzione della comunicazione in Africa. Mi interesso quindi in modo particolare all’oralità. Chiedo a Pedro Miguel: Come si può salvare quest’oralità che si va perdendo dall’assalto delle nuove tecnologie della comunicazione che stanno invadendo l’Africa? Che fare per non perdere la sua ricchezza e aprire al tempo stesso alle nuove tecnologie?

Riguardo al programma alimentare per l’Africa, chiedo a Sarr se il loro programma prevede qualcosa a livello di tutto il continente o si limita unicamente all’Africa occidentale.

Risposte dei relatori

Albert Tevoedjiré. Dobbiamo lavorare a una nuova forma di cooperazione: umanizzare il mondo, un compito per l’Africa. Occorre abbandonare il modello di cooperazione, basato su coloro che danno, da un lato, e coloro che ricevono, dall’altro. La cooperazione deve essere un’operazione a doppio senso, con la possibilità di esprimere chiaramente, nero su bianco, le ragioni per le quali si entra in cooperazione: ragioni storiche, ragioni commerciali, ragioni razionali, ragioni culturali. Penso che il primo passo sia la creazione di un gruppo di lavoro, che elabori le idee che qui siamo venuti esponendo. Concordo con chi ha proposto la redazione e sottoscrizione di un documento sintetico in materia, da tradurre in varie lingue e far pervenire alle varie organizzazioni della società civile africana e non solo. Personalmente sono disposto a partecipare all’elaborazione di questo documento e far parte delle cinque-sei persone che formulano e gestiscono il progetto.

Concordo anche con la proposta avanzata in merito al vostro sito Internet. Occorre proporre progetti, leggi, accordi, basati su questa nuova concezione della cooperazione. Al riguardo nessuno è troppo piccolo o impotente. L’Italia non è certamente un piccolo paese. È un paese che dispone di una grande rete internazionale. E voi non siete soli. Avete amici in Europa e avete molti amici in Africa. Avete molti testimoni anche in Asia e in America Latina. Occorre organizzarsi per portare avanti l’idea e far sì che il sogno di un’Africa in piedi non resti un sogno fumoso, ma diventi un sogno concreto ed efficace.

Saliou Sarr. La nostra esperienza di Afrique nourricière (Africa che nutre) è sostenuta dalla rete delle organizzazioni contadine dei produttori agricoli dell’Africa occidentale, composta da otto paesi dell’UEMOA (Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal, Togo), più Guinea Conakry e Gambia. Stiamo discutendo con le altre organizzazioni dell’Africa orientale e centrale, ma per ora il progetto riguarda solo i dieci paesi succitati. La nostra promozione dell’Afrique nourricière non mira all’autarchia, non rifiuta il commercio, ma vuole che le esportazioni di un paese non perturbino il mercato interno e blocchino la produzione locale. Per un paese il commercio deve assolvere una funzione di complemento. Se il Senegal o l’Africa hanno bisogno di un prodotto devono anzitutto ricorrere all’offerta esistente a livello nazionale e continentale, completandola con prodotti importati solo in caso di necessità e nella misura del necessario. Attuando questo principio a livello di tutti i paesi si realizza un equilibrio.

Riguardo alla PAC (politica agricola comune europea), con la creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC, 1994-95), l’Europa e gli Stati Uniti si sono accordati per esportare i loro prodotti a livello mondiale e porre delle limitazioni alle importazioni, del resto necessariamente limitate a causa del diverso livello di produttività. In base ai dati disponibili, già all’inizio del XX secolo la differenza di produttività fra Africa ed Europa era di uno a dieci. Dopo settant’anni era di uno a mille. Data questa differenza di produttività e competitività fra due paesi o due continenti, è assolutamente impossibile commerciare su un piano di parità ed equità. Aprendo i mercati e sopprimendo le barriere si lascia libero campo alla legge del più forte. Per raggiungere il loro livello di produttività, gli Stati Uniti e l’Europa hanno creato uno spazio e chiuse le loro frontiere, hanno fortemente sovvenzionato la produzione interna, incentivato e sovvenzionato le esportazioni, migliorato le infrastrutture: strade, comunicazioni, mezzi di produzione, mezzi di trasporto, ecc. I paesi africani non hanno infrastrutture, hanno un livello di produttività molto basso, diritti doganali estremamente ridotti e non hanno sovvenzioni. In queste condizioni e impossibile competere. D’altra parte, in materia di alimentazione, le abitudini variano notevolmente non solo da paese a paese, ma anche da etnia e etnia. Le popolazioni africane continuano a mangiare in modo diverso dagli europei e dagli americani. Tutto questo ha accresciuto l’insicurezza alimentare e la povertà nelle nostre campagne. Occorre bloccare questo processo e cambiare rotta. Occorre porre l’accento sulla missione primaria dell’agricoltura, che è quella di nutrire la popolazione del proprio paese. E non bisogna dimenticare che l’agricoltura è la principale fonte di occupazione. Oggi, in Africa il 65% della popolazione economicamente attiva è impegnato nel settore agricolo. Occupa lo spazio, gestisce l’ambiente, le risorse naturali, procura il cibo. La sua situazione e funzione è diversa da quella dell’industria. Ad esempio, un catena di produzione di automobili che non rende più in un paese può essere trasferita in un altro, mentre, se l’agricoltura non rende più in un paese, non si può trasferire altrove la terra. Stanti queste funzioni basilari dell’agricoltura, il settore non può essere regolato dall’OMC. Noi proponiamo la creazione di spazi agricoli ed economici, perlomeno a livello africano, come la CEDEAO (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) e l’UEMOA (Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale), a partire da paesi che hanno le stesse colture, le stesse abitudini alimentari, gli stessi livelli di produttività: investire, perseguire la sovranità alimentare, scambiare e commerciare a livello internazionale su un piano di parità, offrire il proprio contributo. Come produttori africani non siamo contrari alle sovvenzioni. Anche eliminando le sovvenzioni e mantenendo le differenze di produttività, le debolezze degli investimenti, le debolezze dell’accesso alle risorse (acqua, terra, sementi, crediti), l’Africa continuerà a essere perdente. Il problema è più complesso, più globale. I contadini africani non sono contrari alle sovvenzioni e ai sostegni offerti alla loro agricoltura dagli altri paesi, ma vogliono che le importazioni dei loro prodotti non perturbino i loro mercati interni.

Le nostre associazioni contadine e i nostri produttori africani considerano gli Accordi di partenariato fra Unione europea e paesi ACP più devastanti delle politiche dell’OMC, nonostante che vengano sbandierati come la soluzione a breve-medio termine dei problemi dei paesi africani. Mentre a livello di OMC si sostiene una riduzione dei diritti di dogana, delle protezioni, delle sovvenzioni, gli Accordi sostengono la cancellazione pura e semplice dei diritti di dogana, senza parlare di sovvenzioni o sostegni interni alla produzione agricola, ben sapendo che nessun stato africano è in grado di concederli. L’unica arma che hanno i paesi del Sud è la protezione mediate i diritti di dogana. Proporre un commercio senza diritti di dogana significa liquidare ancora una volta l’Africa e il suo sviluppo.

Il discorso sulla competitività è, a mio avviso, una menzogna e un inganno. Competitività significa che anzitutto si fissano le regole del gioco a partire dai prezzi mondiali e che i prezzi mondiali vengono fissati nei paesi con i costi di produzione più bassi. Per esempio, riguardo al latte o alla carne si fissano i prezzi mondiali in Nuova Zelanda o Australia, dove hanno i costi più bassi, ma che rappresentano dal punto di vista della produzione mondiale solo l’1%. È giusto fissare i prezzi a partire da produzioni che rappresentano l’1% della produzione mondiale? Evidentemente questo lede un paese che rappresenta il 40-50% della produzione mondiale. D’altra parte, quando si parla di competitività non si tiene conto delle sovvenzioni e dei sostegni interni. Per tutti i prodotti – riso, mais, grano – i paesi che realmente esportano a livello mondiale e sono competitivi sono quelli che sovvenzionano i loro prodotti. Ad esempio, negli Stati Uniti, quando i prezzi di un prodotto sono bassi si permette al produttore di stoccare il prodotto e il governo lo sovvenziona a tassi di interesse zero, per poter continuare la produzione. Il governo afferma che non si tratta di una sovvenzione, ma in realtà lo è. Nel campo delle esportazioni si concedono crediti all’esportazione con tassi di interesse zero. Ora tutto questo viene posto sotto il termine competitività allo scopo di imbrigliare di fatto i paesi più poveri.

Pedro Miguel. Mi è stato chiesto come poter combinare l’oralità con la tecnologia. La cultura fornisce sempre una struttura psichica. Parlando dell’oralità siamo sempre nel campo della letteratura. L’oralità convive anche con la letteratura. A livello linguistico ogni popolo possiede la sua struttura psico-sintattica. Se si prendono, ad esempio, due ragazzi della stessa età, uno africano e uno italiano, e si chiede loro di scrivere la parola sedia, l’italiano sarà evidentemente facilitato, perché conosce già il suono della parola e sa di che cosa si tratta; possiede già il suono e il senso, gli manca solo il segno. L’africano invece deve imparare il suono, il senso e il segno. La tecnologia non distrugge la nostra struttura psico-sintattica. Il microfono di cui mi servo per parlare non mi impedisce di parlare la mia lingua e non distorce le sillabe, non le rende incomprensibili. Oralità e tecnologia sono quindi combinabili. Si può conservare l’oralità, la letteratura orale, senza distruggere la nostra struttura psico-sintattica. Molti autori africani hanno scritto in lingue europee, ma hanno conservato la struttura psico-sintattica, tanto è vero che non basta conoscere la lingua europea per poterli comprendere appieno. Non basta conoscere il portoghese del Portogallo per comprendere il portoghese dei nostri scrittori angolani, quando usano la loro struttura psico-linguistica.

Anne-Cécile Robert. Si afferma che l’Africa è emarginata nella globalizzazione. Samir Amin ha sottolineato un paradosso. Nel PIL del continente africano la parte del commercio internazionale è mediamente del 30-35%, mentre nel PIL dell’Unione europea e degli Stati Uniti è solo del 10-15%. Ciò significa che l’Africa è molto aperta alla globalizzazione, è anzi iperglobalizzata. È ben presente. Il problema è che è inserita nella globalizzazione in modo passivo. É oggetto e non soggetto della globalizzazione. Le regole del commercio mondiale vengono fissate sempre all’esterno. Anche lo sviluppo è prodotto dall’esterno. La visione economica è elaborata dall’Occidente ed esprime le preoccupazioni degli occidentali.

Può esservi uno sviluppo in Africa? Se lo sviluppo corrisponde a una visione tipicamente occidentale, al capitalismo, ci si può chiedere se l’Africa debba entrare in quel sistema o non debba piuttosto cercare di inventare qualcosa di nuovo, di diverso. Qui trova posto la critica dello sviluppo. Le riflessioni di Saliou Sarr sull’agricoltura inducano a chiedersi se l’Africa non debba rompere con le regole del commercio mondiale, con le regole della globalizzazione, con le regole dello sviluppo, dato che queste regole sono ingiuste e vanno spesso a scapito del continente africano. Data l’esistenza di questi rapporti di forza, occorre proporre regole diverse, che permettano all’Africa di saltarne fuori. Il commercio mondiale deve avere le regole vigenti nello judo o nella boxe. Non si può chiedere ai pesi piuma di combattere contro i pesi massimi. In realtà, l’OMC e la PAC (politica agricola comune) dell’Unione europea vorrebbero che l’Africa entrasse in competizione con gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania. Occorre tener conto di questa differenza nei rapporti di forza e stabilire regole più giuste. Occorre inventare altri modelli che, secondo me, passano, nel caso dell’Africa, attraverso forme di protezione. Negli anni ’70 l’Unione europea aveva tenuto presente questo aspetto negli Accordi di Lomé, che miravano effettivamente a aiutare l’Africa con un meccanismo di sostegno dei prezzi delle materie prime e dei prodotti agricoli, dal momento che in un regime di rapporto di forze i prezzi erano sempre sfavorevoli all’Africa. Allora si era cercato di stabilizzare i prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime, diversamente dalla concorrenza e dal libero scambio in vigore attualmente. Purtroppo negli Accordi di Cotonou l’Unione europea ha adottato i principi dell’OMC e sostenuto idee e politiche molto vicine a quelle dell’OMC. Lo slogan è «vinca il migliore», ma in un gioco in cui le carte sono truccate, in cui al punto di partenza alcuni hanno maggiori vantaggi degli altri, vince in genere il più disonesto o semplicemente il più favorito.   

Domande del pubblico

– Mida. Non abbiamo parlato di due fattori fondamentali che stanno cambiando il volto dell’Africa: l’AIDS e il reclutamento forzato dei minori in molte guerre civili africane. Sono due fenomeni che creano cambiamenti epocali, perché distruggono il nucleo fondante della società africana: la famiglia, la famiglia allargata. In molti villaggi africani sono rimasti solo i nonni e i nipoti. Sta scomparendo un’intera generazione. Il fenomeno dei bambini soldato, da parte sua, sta alterando i rapporti fra anziani e ragazzi. I ragazzi che ritornano al villaggio con le armi e una divisa militare non hanno più il tradizionale rispetto per gli anziani tipico della cultura africana. Che ne pensano Anne-Cécile Robert e il prof. Bernardi?

– Martino, studente di cooperazione. Io e i miei compagni, all’inizio dei nostri studi, abbiamo scelto questo corso sulla cooperazione. Come i sognatori degli anni ’60, credevamo che la cooperazione fosse un modo efficace per cambiare il mondo. Ma affrontando gli strumenti della cooperazione e valutando i risultati cui è pervenuta ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: Noi stiamo studiando una materia che dagli anni ’60 non ha fatto che aggravare i problemi che volevamo risolvere. Da quando Truman divise il mondo in mondo sviluppato e mondo sottosviluppato sono partiti i progetti di cooperazione e da allora la cooperazione non ha fatto altro che accrescere la povertà, il debito e il divario fra Nord e Sud. E tuttavia si è continuato a affermare che aumentando il PIL si poteva assicurare lo sviluppo. Ci siamo quindi chiesti se cooperare o decoperare. I più estremisti fra di noi dicono che non dobbiamo fare cooperazione, ma decoperazione, andando cioè a rimediare a tutti i danni che ha fatto la cooperazione. Chiedo a Tevoedjiré e al prof. Bernardi: Dobbiamo ancora credere ai progetti della Banca mondiale, del FMI, dell’OMC? Dobbiamo ancora credere a questi progetti di sviluppo a livello governativo o dobbiamo piuttosto puntare sui progetti delle ONG? In che modo la nuova cooperazione può condurre veramente i paesi del Sud a un reale sviluppo autonomo? E soprattutto quali devono essere i concreti obiettivi specifici dei nostri futuri progetti di cooperazione allo sviluppo?

– Mi chiamo Midi. Studio scienze economiche alla Gregoriana a Roma. S è parlato molto della povertà dell’Africa. Nella Repubblica democratica del Congo il budget del presidente è di 500 mila dollari, mentre un professore ha un salario di quindici dollari al mese. In queste condizioni si può accusare l’Occidente di essere il solo a rubare e impoverire l’Africa? Anche i nostri presidenti impoveriscono la nostra cara Africa. Noi studenti alla fine dei nostri studio cerchiamo lavoro, ma non lo troviamo. I nostri politici non ci permettono di lavorare e di accedere a posti più strategici. Non ci permettono neppure di esprimere le nostre opinioni sulla situazione dei nostri paesi. I giovani non partecipano allo sviluppo dei loro paesi. Voi adulti che cosa potete dirci al riguardo? Rivolgo la domanda soprattutto a Tevoedjiré.

– Enzo. Si è detto che l’Africa deve essere per noi un punto di riferimento, perché può darci dei valori che l’Occidente non ha mai avuto o ha perduto. C’è chi ha detto che quando in Africa muore un vecchio fa in fumo un’intera biblioteca. Ritengo che oggi quest’espressione non sia più vera. Nei villaggi africani che ho conosciuto il vecchio non è più il depositario della cultura. La cultura si è ramificata in mille rivoli. In certi campi il ragazzo che frequenta il liceo sa molte più cose del vecchio saggio. Se poi frequenta l’università e studia medicina, sarà il vecchio ad andare a scuola dal giovane ventenne in materia di salute. Non si tratta quindi di colonialismo, ma di modernità. Chiedo ai nostri relatori: La modernità in quanto tale non cozza contro la cultura dell’Africa tradizionale e in larga parte la distrugge?

– Gli organizzatori di questo incontro hanno scelto il titolo L’Africa in piedi in aiuto all’Occidente e Anne-Cécile Robert ha svolto la sua relazione su questo tema, sul quale ha peraltro scritto un libro. Credo che tutti ci rendiamo conto della povertà, della miseria nella quale si trova l’Africa. Essa è ben lungo dallo svilupparsi, oggi o domani. Parlare di Africa in aiuto all’Occidente non è una barzelletta, uno scherzo, come dicono gli italiani? D’altro canto, alla luce delle guerre, dei conflitti e di tutto ciò che è avvenuto nel XX secolo si può veramente credere che saranno i valori culturali africani a salvare l’africano? O che l’europeo ha bisogno di questi valori per diventare umano?

– Certe affermazioni sulla povertà mi sono parse strane. Del resto anche il concetto di povertà è stato definito dagli altri. La povertà non è il non avere e il non accettare, ma il non avere ciò che gli altri pensano che io debba avere. Penso che questo concetto sia molto sbagliato. Un proverbio africano dice: «Lega due uccelli per le zampe; insieme avranno quattro ali libere, ma non potranno volare». Parlando di africani che devono fare qualcosa per se stessi, è importante, a mio avviso, considerare bene con che cosa devono legarsi. Devono legarsi con oggetti materiali o con il sapere che possiedono? Penso che gli africani abbiano un sapere che non usano o non considerano e non valorizzano. Secondo me, si tratta di un problema molto serio. A Roma abbiamo fondato un’associazione che cerca per quanto possibile di sostenere le scuole di villaggio. Gli anziani vanno a scuola e insegnano ai bambini chi sono, trasmettendo loro il senso della loro dignità e la fierezza per la loro cultura e per la loro lingua, aiutandoli così a non stravedere per tutto ciò che viene dal di fuori. Noi siamo di tradizione orale e questo non è uno scherzo. Un africano che non conosce la sua lingua è gravemente handicappato e per tutta la vita. Quando sei bambino, attraverso l’apprendimento della lingua interiorizzi segni, simboli, e impari a conoscere chi sei. Questo ti resta dentro per tutta la vita. Molti africani sono dottori in questo e in quello e non conoscono nemmeno la loro lingua. Nessuna meraviglia che comincino a giurare nel nome degli altri. Evidentemente anche il loro pensiero emigra da dove sono, da ciò che sono verso ciò che gli altri vorrebbero che fossero. Se leghiamo i nostri due uccelli per le zampe non voleranno mai. Se li leghiamo per il cervello, non avranno bisogno di toccarsi, voleranno insieme. Al villaggio quando vediamo gli uccellini che volano insieme diciamo che sono legati per il cervello. Formano una nuvola che intimorisce anche i grandi uccelli. Questa è una nostra ricchezza. Abbiamo ricchezze che purtroppo trascuriamo. Gli europei non sono ancora riusciti a capire la nostra medicina. Stanno ancora cercando per l’anestesia generale cose che da noi sono conosciute e usate da secoli in certi riti. Noi abbiamo rinnegato noi stessi. Penso che questo sia il problema fondamentale e oggi tutto ci spinge a rinnegare sempre più le nostre tradizioni, a inselvatichirle. Questo produce il sottosviluppo e il continuo regresso del continente africano. Credo sia importante lavorare per la formazione di generazioni che abbiamo la coscienza di ciò che può essere l’Africa, che possano mettere in piedi l’Africa. Ma tutto questo può avvenire solo valorizzando chi siamo. È una cosa che noi non facciamo e che anche gli europei non hanno mai pensato di poter fare. Dobbiamo prenderci cura dei nostri bambini e cercare di educarli a partire dalla scuola. Ovunque vado insisto sempre sulla scuola. Senza mai denigrare le tradizioni esistenti. A volte anche l’uso di un semplice bastone ha richiesto secoli di ricerche e perfezionamenti.

– Anastasio. La Conferenza di Berlino ha diviso l’Africa in molti stati tracciando confini artificiali Così si sono frantumate non solo le etnie, ma anche le economie, economie che si integravano fra loro. Mi rendo conto che oggi è praticamente impossibile toccare la questione dei confini (cf. la situazione dei Grandi Laghi) ed è praticamente impossibile sbarazzarsi da dirigenti corrotti. A me sembra che la via obbligata sia quella di un’economia regionale dove i vari aspetti, soprattutto a livello agricolo, siano integrati. Non è certamente facile. A volte mi chiedo se non si potessero eliminare alcuni piccoli stati africani, che costituiscono un passivo per tutti, e formare spazi culturali e politici più vasti, integrando così le economie regionali con varie tipologie di colture, allevamenti, ecc. Penso che questa sia una strada obbligata per il futuro dell’Africa.

– Chiedo al prof. Castelli: Che cosa possiamo fare per diffondere la capacità di decostruire i messaggi e le costruzioni cognitive che abbiamo assorbito?

La mia associazione sta collaborando con una comunità senegalese. Quest’anno abbiamo appoggiato la sua richiesta di mandare a scuola cento bambine, che senza il nostro aiuto non avrebbero potuto farlo. Chiedo ai relatori: Che impatto possono avere sulla società senegalese, sulla famiglia senegalese, questi cambiamenti che noi europei giudichiamo positivi e che ci sono stati richiesti del resto da un’associazione senegalese?

Risposte dei relatori

Enrico Castelli. Ho mostrato non solo come si crea l’immaginario, ma anche come continua, come rimane dentro di noi, facendo continuamente il paragone fra quello che viviamo noi e quello che vivevano i nostri nonni. Così possiamo comprendere come si creano i miti. Comprendendo che si tratta di miti, possiamo scoprire anche delle strategie per neutralizzare i loro aspetti negativi, pur non riuscendo ad eliminarli del tutto. Lo sviluppo non è forse un mito? È il mito di oggi. Nello sviluppo noi verifichiamo la nostra superiorità e le tensioni nelle quali viviamo, nelle quali organizziamo la nostra vita. Lo sviluppo è un mito, ma non perché uno è più o meno sviluppato in base alle cose che possiede. La costruzione complessiva è qualcosa dentro la quale ci troviamo. Strutture dell’immaginario esistono in Italia, ma esistono anche in Africa. Anche gli africano hanno un’immagine stereotipata del bianco. Se non si decostruiscono questi stereotipi non è possibile comunicare. Bisogna comunicare fra persone e quindi bisogna riuscire a distruggere sia le nostre costruzioni mitologiche sia quelle della persona che abbiamo di fronte. Altrimenti la sua costruzione mitologica ci impedisce di entrare in contatto, poterci esprimere e dialogare. Noi abbiamo dello sviluppo un’immagine mitologica che poi si nutre di cose vere, reali. Bisogna distinguere fra mito e verità.

Pedro Miguel. Riguardo al vecchio che muore e la biblioteca che va in fumo, penso che non si possa stabilire un’equazione fra tradizione, passato, progresso, futuro. Secondo me, questo è un falso problema. Il vero problema è dipendenza o autonomia. Non è vero che il vecchio non c’è più. Quando gli antropologi, i ricercatori vanno in Africa tornano con raccolte di fiabe, di racconti. Il problema è che tutto questo si va progressivamente riducendo a vantaggio degli altri, il che non è giusto. Le piante medicinali esistono e interessano ancora agli africani, ma gli occidentali arrivano, brevettano e gli africani non possono più utilizzarle. L’Africa non ha fatto nulla per scomparire. Sono stati gli altri a farla scomparire. Lo stesso nel campo della letteratura. Molti racconti africani sono stati tradotti in italiano e immessi sul mercato all’insaputa dei loro autori. 

Anne-Cécile Robert. Siamo pienamente consapevoli dei problemi che i bambini soldato creano in Africa. Nessuno di noi lo nega. Il dibattito riguarda l’interpretazione di questi problemi. Personalmente sono convinta che non si può ridurre l’Africa ai suoi problemi. Come il malato resta comunque un essere umano e può parlare di altro oltre che della sua malattia, così l’Africa, nonostante i suoi problemi, è un continente pieno di gente che ha delle cose da dire al mondo. Questa mi sembra una verità importante. L’Africa ha delle cose da dire al mondo come ogni altro continente e ogni altra parte del mondo. L’idea di scrivere il libro L’Africa in aiuto all’Occidente mi è venuta dall’esperienza che ho fatto in Africa, dai viaggi che ho fatto nel continente africano. Ogni volta mi accorgevo di ricevere moltissimo sul piano umano, per cui dovevo comunicarlo anche ad altri. Molti occidentali hanno fatto incontri molto umani in Africa, hanno visto che c’è vita, c’è esperienza, che ci sono valori. Il problema è se si ha voglia di valorizzare queste cose e trarne delle lezioni per aprire la discussione sul modo in cui stiamo sviluppando il mondo.

L’Africa ha ancora voglia di difendersi? Ha ancora voglia che qualcuno le dica grazie? Nel mio libro mi accontento anzitutto di dirle grazie. Sento che lì ci sono persone desiderose di battersi per difendere certi valori molto importanti. Ma bisogna fare presto, perché la globalizzazione, prolungando i meccanismi della colonizzazione, sta distruggendo tutto. Bisogna battersi ora, perché fra vent’anni sarà probabilmente troppo tardi. E dobbiamo farlo anche in Europa, perché anche qui stiamo perdendo certi valori molto importanti. A me sembra che oggi la crisi del modello occidentale apra uno spazio. Vent’anni fa si parlava di globalizzazione felice, di villaggio planetario. Ora ci si rende conto che le cose non vanno così bene come si era immaginato: problemi ecologici, guerre, problemi sociali… E ci troviamo tutti a dover affrontare questi problemi. A mio avviso sarebbe aberrante affermare che l’Africa non ha nulla da dire al riguardo. Bisogna essere realisti e ritenere che un continente di 700 milioni di abitanti ha certamente qualcosa da dire sul cammino del mondo. Sarebbe strano che così non fosse e ancor più strano che l’Occidente, nel suo delirio di superiorità, rifiutasse questo confronto, soprattutto quando tutti sanno che in genere è stato proprio lui stesso a creare i problemi.

Bernardo Bernardi. Le figure degli anziani sono scomparse completamente con l’affermarsi della scuola. Anche là dove non esisteva il sistema scolastico è cresciuto e si è sviluppato fino all’università. Oggi, praticamente tutta l’Africa è non solo alfabetizzata, ma letteraria, per cui la figura dell’anziano come detentore della letteratura non esiste più. C’era nel passato, ma oggi è scomparsa. Ma l’eredità trasmessa dall’anziano e il rispetto per l’anziano restano. Gli autori concordano nell’affermare che dall’Africa hanno imparato soprattutto il rispetto per l’anziano. Ovviamente ciò non significa che non esistano delle diversità fra individuo e individuo. C’è l’anziano ricco di intelligenza e di esperienza e c’è l’anziano povero di intelligenza e di esperienza. Esattamente come da noi. Ma tutti vengono rispettati e accettati come persone. Il rispetto fondamentale è quello per la persona e l’Africa ci insegna proprio questo.

Per quanto riguarda il problema della cooperazione, avviata dopo la Seconda guerra mondiale, all’inizio i progetti erano studiati a tavolino, poco rispondenti alla realtà africana e caratterizzati da un atteggiamento di superiorità di chi si recava in Africa dall’America o dall’Europa, quindi di praticamente di disprezzo come se gli africani fossero degli ignoranti. Jomo Kenyatta nel suo libro Davanti al monte Kenya afferma che gli europei, compresi i missionari, andavano in Africa credendo che l’Africa fosse una lavagna pulita sulla quale potevano scrivere tutto ciò che volevano. Credevano che l’Africa non avesse nulla di proprio. Anche per quanto riguarda la cooperazione tecnologica, si è voltato pagina quando ci si è accorti che bisognava partire da ciò che la gente già faceva e dalla tecnologia locale e far fruttare ciò che era già nella realtà delle cose. Così la cooperazione ha cominciato ad abbinare due operazioni: quella di chi portava qualcosa e quella di chi aveva bisogno di essere aiutato, ma possedeva già qualcosa che bisognava conoscere. Chi voleva fare cooperazione doveva anzitutto prepararsi a capire le culture esistenti nelle popolazioni alle quali offriva la propria cooperazione. A far fallire molti progetti di cooperazione è stata proprio l’impreparazione, l’ignoranza della realtà locale, la mancanza di una qualsiasi intesa fra chi dava e chi avrebbe dovuto ricevere. L’innesto esige la conoscenza dell’albero su cui farlo. Il grande problema della cooperazione è stato questo.

Riguardo al problema della povertà osservo semplicemente che la povertà è una realtà che esiste in tutte le società e che la cosa più importante da salvaguardare è la dignità del povero. Oggi, in Africa esistono persone ricchissime, che si distinguono nettamente dalla gente comune. Ai poveri direi: Se siete poveri date da poveri; se siete poveri siate coscienti di ciò che siete perché c’è una grande ricchezza nel fatto di essere se stessi; riconoscete ciò che siete. Lo stesso discorso vale anche per l’Italia e viene fatto in molti ambienti italiani. Anche in Italia c’è una dignità nella povertà e non solo fra i religiosi. Il poco che si ha è pulito, adattato alle necessità del momento, alle situazioni del luogo. Una povertà non ricca, ma una povertà dignitosa.

Saliou Sarr. Penso che non dobbiamo limitarci a criticare l’Occidente. Abbiamo denunciato abbastanza le relazioni ineguali fra l’Occidente e l’Africa. Un proverbio africano dice: «Quando si indica una persona con il dito, tre dita sono rivolte contro di te». Penso che dobbiamo partire di qui per affermare la grande responsabilità degli africani. Ho già parlato della responsabilità dei nostri governi, dei bilanci destinati all’agricoltura e alla presidenza nei nostri paesi. Questo è un problema generale e di fondo in Africa. Ho già sottolineato che in Senegal, con il 70% della popolazione occupata nel settore agricolo, si destina all’agricoltura il 7% del bilancio nazionale e alla presidenza della Repubblica il 6%. Questo fa parte della nostra responsabilità. Per quel presidente ha votato il 70% della popolazione senegalese. Ho denunciato le responsabilità della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, ma non bisogna dimenticare che questi organismi elaborano i loro programmi insieme al personale dirigente africano che è andato alla stessa scuola dei funzionari che vengono nei nostri paesi. Ebbene quei dirigenti dovrebbero sapere, come ha detto Sissiko, che se il loro padre non era contadino, il loro nonno lo era. Un dirigente africano non può avere dubbi al riguardo: se suo padre non era contadino, suo nonno lo era certamente. Perciò è impossibile che ignori la condizione dei contadini. E tuttavia sono proprio questi dirigenti ad avvallare i programmi della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Questa è un’altra responsabilità degli africani. E potrei continuare ad elencare le nostre responsabilità. Penso che occorra riflettere su tutto questo sia a Nord che a Sud, perché, in realtà, non esistono paesi sviluppati e paesi sottosviluppati che debbano raggiungere i primi. Viviamo tutti in un mondo mal sviluppato e tutti dobbiamo esigere dai nostri governi, sia a Nord che a Sud, che elaborino e realizzino le politiche a partire dalle legittime richieste e necessità delle popolazioni, rispettando le diversità di produzione, le diversità culturali e l’equità sociale.

Albert Tevoedjiré. Parlo per ultimo e tutto è già stato detto. Mi limito quindi a sottolineo tre punti.

Riguardo alle domande sul comportamento dei presidenti africani, nella Tragedia del re Cristoforo, Aimé Césaire scrive: «È tempo di indurre alla ragione quei negri che credono che la rivoluzione consista a cacciare il bianco e a fare il bianco sulla pelle del nero». Abbiamo un dovere di denuncia, un dovere di impegno nei riguardi di questa problematica. Fanon diceva: «Noi non vogliamo raggiungere nessuno, perché chi vuole raggiungere imita». Dobbiamo essere noi stessi. Per esempio, in campo medico. In Africa c’è un medico ogni ventimila abitanti, il reddito pro capite è quello che sappiamo, per cui l’accesso al medico e alla medicina occidentale diventa il privilegio di qualcuno. Eppure in Africa non tutti muoiono. Ciò significa che la maggioranza si cura con medicine alternative, africane, e quindi che in Africa esistono reali possibilità e capacità di cura. Noi siamo tentati dal progresso scientifico di tipo occidentale e tuttavia possiamo progredire in campo scientifico anche a partire da ciò che abbiamo. Purtroppo il mondo è malato. Ci sono persone scientificamente sviluppate in certi campi e persone malate che muoiono ogni giorno in tutte le società. L’uomo è malato in Europa, in Africa e altrove. L’uomo è malato e noi vogliamo una società che permetta la piena realizzazione dell’uomo. In questo noi africani abbiamo la nostra parte da giocare. Possiamo umanizzare il mondo, affinché anche coloro che hanno fatto dei progressi in campo scientifico e tecnico diventino persone pienamente realizzate, compiute. Questo non ci impedisce di entrare anche noi nella lotta per il progresso scientifico. Negli Stati Uniti e altrove i neri sono spesso ai primi posti in questa battaglia scientifica.

Per noi cristiani la redenzione, la passione di Cristo, è il cammino più significativo del nostro pellegrinaggio terreno, ma su questa strada abbiamo spesso ignorato che Dio ha voluto che vi fosse un africano, Simone di Cirene. Nella redenzione c’è stato un collaboratore, un africano, che ha portato la croce di Gesù. Tre evangelisti ne parlano, mentre la nostra storia lo dimentica. È importante che questo gesto di fraternità, questo gesto umano sulla strada del Golgota, venga continuamente ricordato agli africani, dato che Dio ha voluto così. Noi siamo presenti nella storia più importante della risurrezione dell’essere umano. Lì abbiamo la consacrazione di un ruolo molto importante da giocare per l’umanizzazione del mondo. Per questo la cooperazione deve cambiare; deve cambiare perché deve essere basata sulla verità. Bisogna mostrare a coloro che credono che i signori del mondo, nonostante il loro potere e le loro ricchezze, sono colossi dai piedi di argilla, mentre i più piccoli, coloro che credono che l’altro è, non sono nulla, perché non dimenticano di avere uno sguardo di fraternità, non abbandonano il fratello. La società umana è tale che gli africani hanno il loro ruolo da giocare. Aimé Césaire scriveva: «Lasciate che i piccoli neri entrino pienamente nella storia della costruzione del mondo».

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